Sinceramente, tua.
«Amore, secondo te sono bella quanto la Bianca Balti?»
«No».
«Ma neanche lei è tanto alta, però compensa con la personalità».
«No».
Questo simpatico scambio di battute tra me e il mio boy©®, che nella realtà non chiamo né amore né boy altrimenti mi riempie di paccheri, mi ha suscitato un riflessione, che mi porto dentro da tempo, sul dire la verità sempre e comunque, sull’ipocrisia, sulla falsità – mio Dio! – la falsità della gente. Tipo quando a Uomini e Donne si alza una corteggiatrice dalle retrovie, una di quelle che deve fare un po’ di caciara (termine tecnico) per farsi notare. Una di quelle che ad un certo punto si alza e urla «IO SONO VERA, TU SEI FALSA!».
Premetto che sono molto cambiata nel corso del tempo in questo senso. Da piccola e poi da adolescenze, e a ben vedere fino all’altro ieri, sono stata una tipa abbastanza schietta, decisamente sardonica e, in ultima analisi, sincera.
Crudelmente sincera.
Dicevo le cose come stavano alle amiche, alle nemiche (notare il femminile), ai parenti, ai conoscenti, agli sconosciuti. Dicevo quello che avevo da dire ai nonni, alle maestre, al sacerdote, alla vicina di banco. Non avevo pietà e remore per i ricchi, i vecchi, i laureati, il proletariato. Spargevo sentenze in ugual maniera tra tutti gli strati e le estrazioni sociali.
Comunque, non è che stavo sempre a dire la mia. Ero una tipa abbastanza silenziosa, che si muoveva nell’ombra, che si appostava subito dietro l’umanità ed osservava con occhi felini la scena col suo bel sacchetto di popcorn in mano. Dall’osservazione della realtà, traevo le mie teorie. Se mi venivano richieste opinioni, le esponevo. Le esponevo anche nel caso in cui mi sembrava un dovere esporle. Un dovere nei confronti dell’umanità. La mia missione non dichiarata era educarne uno per educarne cento.
Esempio pratico:
«Secondo te, Armando mi ama?» – «No, ti schifa ma una bottarella non si nega a nessuno».
«Sto bene con questo vestito?» – «No, sembri uno scaldabagno con le paillettes».
Però, questa cosa di dire sempre quello che pensavo mi causava spesso problemi. In sostanza, la gente ci rimaneva male, la gente mi dava della stronza, la gente sveniva, la gente piangeva, la gente piantava scene isteriche abbastanza sconvenienti.
E quindi, sono cresciuta, sviluppando senso della responsabilità, manierismo e riguardo verso il prossimo, empatia, sensibilità, nonché una certa paraculaggine.
Ad un certo momento ho deciso che, forse, non era più il caso di dire alla cessa che era cessa, all’innamorata che Armando non se la filava, a quello che ci teneva ad essere interessante che era noioso come una replica di Dallas, all’originale che era OLD, a quello che si pensava competente che era incompetente, al simpatico che era simpatico come un cactus sotto l’ascella.
Ascoltavo tutti, ascoltavo di tutto e mi limitavo a fare sì sì con la testa, a dire «eh, già», «anfatti», «quant’è vero». La gente rimaneva contenta e io pure. Mi sentivo come Ameliè nel magico mondo.
Non andò tutto per il verso giusto. All’improvviso mi ritrovai circondata da gente contenta e appagata del mio dire «sì sì, certo, come no». Gente che all’improvviso voleva essere la mia best friend forever. E io, non sapevo più come scollarmi ‘sta gente accollata.
Come ho fatto ad uscire da tutta una serie di incresciose situazioni?
Non ne sono uscita.