Coccodrilli, zie e altri demoni
Ero appena entrata nella pre-adolescenza e all’epoca, le mie personali Oriana Fallaci e Camilla Cederna erano rispettivamente zia Simonetta e mamma Marina: due nomi anni ’70 per due donne nemiche e amiche. La prima con un temperamento ribelle e passionale e mia madre, sempre passionale e ribelle ma in maniera più coscienziosa e ingenua. I miei gusti in fatto di letture erano influenzati dalle loro letture.
Mamma ha sempre letto romanzi. Tanti romanzi. Libri con delle storie vere, potenti, straordinarie, belle. I suoi preferiti erano quelli con un finale illuminante, una morale netta e positiva, un mondo con buoni e cattivi e una posizione da prendere per scegliere da che parte stare. Libri con dei drammi. Tanti drammi. Abbiamo una libreria piena di Dickens, Austen, Balzac, Tolstoj, Flaubert (i nervi che le ha fatto venire quella piagnona di Madame Bovary), Stevenson, Irving, «La mia africa», «Cime tempestose», «Il diario di Anna Frank» e tutta la letteratura di formazione. Senza disdegnare gli Harmony. Cataste di Harmony ammucchiati ovunque, Harmony nascosti sotto i divani, chiusi e nascosti in fretta sotto i cuscini appena sentiva entrare qualcuno in casa, retaggio di un’opposizione feroce alla lettura da parte di nonna Assunta.
Mia zia, invece, era quella che leggeva libri, che nel basso Lazio, a metà degli anni ’90, erano definiti “diversi” e “particolari”. Cioè – per dire ‑ «L’arte di amare» di Eric Fromm, «L’interpretazione dei sogni» di Freud, le poesie di Pablo Neruda. Saggi, poesie e raccolte di racconti. Mamma, che se li era pure letti, li odiava. Per lei erano libri pretenziosi che non raccontavano nessuna storia ma che appunto pretendevano di dirti come vanno davvero le cose a questo mondo o come fare per far-andar-bene-le-cose-a-questo-mondo. Libri con una morale alla rovescia. Zia esaltata da un sentimento di rivoluzione sessantottino, mamma sospettosa. A lei sembrava fuffa. «Quei libri – diceva – ti fanno il lavaggio del cervello peggio di certe domeniche a messa».
C’erano, però, dei punti di contatto. Ho visto entrambe ridacchiare nascoste nel sottoscala, su una famosa copia di “Chi” che andò esaurita, quella con le foto di Daniel Ducruet, l’allora marito di Stefania di Monaco, che fa le capriole con una spogliarellista.
L’altro punto di contatto era Gabriel García Márquez.
Era zia Simonetta ad avere in libreria l’opera omnia di García Márquez. Io lo consideravo la versione difficile di Isabel Allende di cui avevo letto «La casa degli spiriti», che mi era piaciuto tantissimo, e «Eva Luna», che non mi era piaciuto (tranne il nome della protagonista, uno di quei nomi che ti piacciono quando hai undici anni, tipo Celeste o Topazio). Avevo appena finito di leggere «Il nome della rosa», considerato un mattone pesantissimo un po’ da tutti (cioè da mamma, zia e la professoressa d’italiano delle medie) e gasata da questo fatto che «così giovane ma già legge di questi mattoni pesantissimi», m’ero fissata che avrei espugnato anche «Cent’anni di solitudine», cosa che a prima botta invece non mi riuscì e a dir la verità non riuscì neanche a mamma. Zia, invece, l’aveva letto e questo suo continuo ribadire che era un libro bellissimo c’irritava non poco.
Grazie a tutta la calma concessami dall’estate tra seconda e terza media, finalmente espugnai «Cent’anni di solitudine», disegnando anche io (come immagino abbiano fatto tanti altri) l’albero genealogico della famiglia Buendía. Poi mi dedicai all’intera bibliografia di Gabriel García Márquez. Lessi tutto, anche i racconti (io non leggo racconti e se li leggo non mi danno nessuna soddisfazione). E quando l’altra mattina, la radio ha detto che era morto, mi sono ricordata del momento in cui avevo finalmente capito perché era così importante che Aureliano Buendía si fosse ricordato di quella volta che suo padre lo portò a scoprire il ghiaccio, di fronte al plotone d’esecuzione. Di Remedios morta di parto e di Remedios la bella che faceva impazzire gli uomini. L’ultimo suo libro che ho letto è stato «D’amore, morte ed altri demoni», quelli con la ragazza dai capelli rossi e lunghissimi che sono continuati a crescere anche dopo la sua morte. Mi ricordo dei pesciolini d’oro, come cantava anche De André. E di una ragazza che veniva punta da una rosa e che non smise mai di sanguinare e che nessuno scrive al colonnello, la sabbia, la calce sui muri, il sole, le piogge torrenziali, gli zingari, gli stregoni e le prime notti di nozze.
Anche mamma è riuscita ad espugnarlo alla terza lettura. Lo ha trovato bellissimo. Ancora, quando lo dice, si percepisce l’irritazione.
1 comment » | I read the news today oh boy!, In loving memory, In my life