2 Novembre
“Oggi il camposanto s’è vestito a festa: ogni tomba ha un fiore ed un lumino acceso” è l’incipit di una poesia, sicuramente meno elegante de “‘A livella” ma a suo modo evocativa, che le maestre mi hanno fatto imparare a memoria alle elementari. A quei tempi, il 2 novembre le nonne mi portavano con loro “a fare il giro” al cimitero, che distava dieci minuti a piedi dalle nostre case. La mattina facevo il giro con nonna Vittoria, il pomeriggio con nonna Assunta. Ci andavo volentieri tutte e due le volte perché il cimitero era un posto che mi faceva paura ma mi attraeva, cioè solleticava le mie fantasie di piccola morbosa in erba. Veroli ha un cimitero scavato nella collina, quindi è in salita. L’ingresso è in basso, al piano della strada, con due scalinate in pietra che conducono alla porta con colonne in pietra. Qualcuno, chissà quando, su una delle colonne ha abbozzato un piccolo volto umano. Il giro con nonna Vittoria durava anche quattro ore. Ci portavamo dietro un grosso fascio di crisantemi bianchi e gialli coltivati da lei, che mettevamo a quante più tombe possibili, di parenti e avi alla lontana, o a tombe dimenticate che il 2 novembre senza fiori sembravano anche più tristi che nei giorni normali. Pulivamo i marmi, accendevamo i ceri rossi, pregavamo (“L’eterno riposo”). Soprattutto, nonna Vittoria mi raccontava le storie della gente di lì: del medico Ignazio che aveva curato una tubercolosi a un conoscente, della trisnonna Rosa figlia de Sanspirdo (del “Santo Spirito”) nel senso che era orfana, probabilmente figlia non voluta di un qualche personaggio che si diceva essere ricco o importante. Si diceva che avesse un bellissimo braccialetto d’oro dalla nascita ma non so se sia vero o se sono io ad aver confuso con la storia di Georgie, il cartone animato giapponese. Poi c’era Egiziaca, vicina di casa, che era morta quando avevo compiuto 4 anni, motivo per cui non mi avevano fatto la festa di compleanno (“Però ti voleva molto bene”), i bisnonni che non avevo conosciuto (Nonno Peppino “s’era ammalato” e Nonno Pietro, “il primo del paese ad avere le cento lire”). Poi c’erano le storie tragiche, conosciute da tutti e raccontate ogni volta: quella seppellita con il vestito da sposa, i due ragazzi morti per l’incidente (nelle vicinanze c’era sempre qualcuno che aggiungeva dettagli macabri), il cugino di secondo grado Fabrizio investito da un’auto mentre passeggiava mano nella mano col fratellino. Di lui nonna aveva una foto grande a casa, sguardo familiare, grembiule blu e fiocco bianco e quando puliva il pavimento cantava le canzoni del suo funerale tipo “Quando busserò alla tua porta/avrò fatto tanta strada/avrò piedi bianchi e puri”. E poi c’era la “sezione dei bambini”: una parete di date remote (“Eh, una volta ne morivano di più”), e di foto in bianco e nero dai bordi fumosi, vestiti bianchi da battesimo e comunione, fatte quasi tutte post-mortem, come ho capito solo molto dopo. A questo punto, si arrivava alla cappella, a pianta rotonda e con piccole rappresentazioni in legno della Via Crucis alle pareti. Ci sentivamo la messa che durava solo mezz’ora (era senza predica) e dopo mia nonna scendeva nell’ossario, a cui si accedeva da una scala a chiocciola ripida nascosta dietro un confessionale. Guardando in giù saliva solo il pallido chiarore di fioche luci lontane, il rimbombo di chi scendeva le scale, un forte odore di umidità, muffa e polvere, il senso di qualcosa di troppo remoto e perso nel tempo. Poi uscivamo di nuovo alla luce del sole e io tiravo un sospiro di sollievo. Le tombe intorno alla cappella erano quelle dei ricchi, con le loro lapidi scolpite nel marmo bianco, da cui uscivano profili di marchesi (“I discendenti adesso stanno a Roma, ma prima abitavano nei palazzi del centro storico, eh!”). E poi le grandi lastre con scritto “Famiglia Stirpe” o “Famiglia De Carolis”, cognomi familiari che parlavano di lignaggio, professori di latino, botteghe, piccole ricchezze accumulate e disperse, grandi scandali di paese. In mezzo a uno spiazzo, un’urna sormontata da una colonna spezzata, con foglie di vite attorcigliate, realizzata da un padre per il figlio morto in guerra (la prima). Più in là, dietro un lungo muretto basso, l’appezzamento per chi voleva farsi seppellire nella terra, con le croci in ferro battuto, che accendeva tra i visitatori l’annoso dibattito se era meglio farsi seppellire nei fornetti o lì, finché qualcuno non raccontava di quando aveva visto i necrofori all’opera, mentre tiravano fuori una bara dalla terra (“eh, che scene Vitto’, che te lo dico a fare. Ma come fanno! Che pelo! Che stomaco!”. Gesti teatrali. Pathos). Di fronte, “l’ossario esterno” che era una botola di pietra per terra che il 2 novembre veniva ricoperta di candele e lumini rossi, che arrivavano fino al selciato (“Attenzione che scivoli sulla cera”). E poi continuando “il vecchio obitorio”, cioè una porta di legno che ho visto sempre chiusa, anche quello legato a aneddoti di incidenti e suicidi dai dettagli irripetibili che qualcuno comunque raccontava con le dovute e caritatevoli censure. Dopo l’obitorio finiva la parte vecchia del cimitero e si entrava in quella più recente, cioè finivano i marmi antichi, il legno, le pietre e iniziava il cemento. Parte cosiddetta moderna, coi suoi cantieri aperti, sempre in via d’espansione un po’ troppo frenetica, a detta di tutti. Lì c’era sempre qualcuno che esclamava “eh, tanto prima o poi lì dobbiamo finire”, indicando con una mano la serie di loculi vuoti e con l’altra… (vabbè). Con nonna Assunta il giro era molto più rapido, preghiere sbrigative ma ad ogni lapide ammonimenti del tipo “Stiamo sicuramente meglio noi di loro!”, “Quanno me mòro, me li devi porta’ pure tu i fiori!”. Andando veloci, si coglievano altre cose seppur di sfuggita, come la carezza di qualcuno a una foto. Rischiavo di inciampare in tombe ricoperte da fiori, lettere, oggetti (sigarette, portachiavi, peluche, sorpresine dell’ovetto Kinder, un fiaschetto). Chissà se la quantità di roba è proporzionale allo sconvolgimento dato dalla morte di quella persona, pensavo. Chissà se si viene ricordati più per i meriti o più per i demeriti. Che cos’è il cimitero se non un susseguirsi di facce e storie, che forse ci chiedono di essere ricordate o forse non ci chiedono proprio niente e vogliono essere solo lasciate in pace. Tornavo a casa sempre con la fantasia solleticata, un po’ scossa ma senza farlo vedere sennò le nonne non mi ci avrebbero riportato. Poi faceva buio e dalla finestra guardavo verso il cimitero e si vedevano da lontano le fioche luci dei ceri e dei lumini rossi accessi.
In ricordo di nonna Vittoria.
(Nonna Assunta sta ancora una favola e saluta tutti)
Category: In loving memory, In my life | Tags: 2 novembre, cambiare l'acqua ai fiori, nonna Assunta, nonna vittoria, rip, spoon river One comment »
Novembre 15th, 2020 at 18:09
il fascino dei cimiterini di paese.
Io ebbi la fortuna di vederne tanti quando feci il militare nel friuli, sempre in giro in camionetta per preparare logisticamente le manovre.
Qui a Roma ho lasciato scritto per essere cremato